Cosa appartiene alla Bibbia e cosa non vi appartiene?
Non dobbiamo sottovalutare l'importanza di questa domanda perchè "le parole della Scrittura" sono quelle che costituiscono nutrimento per la nostra vita spirituale. Quando Mosè consegnò al popolo di Israele la parola ricevuta da Dio affermò: “Essa infatti non è una parola senza valore per voi; anzi è la vostra vita. Per questa parola passerete lunghi giorni nel paese in cui state per entrare per prenderne possesso, attraversando il Giordano” (Deuteronomio 32:47). Aggiungere o sottrarre dalle parole di Dio significherebbe impedire al popolo di Dio di obbedirgli completamente, poiché i comandi sottratti non sarebbero noti al popolo e le parole aggiunte potrebbero richiedere cose extra del popolo che Dio non aveva comandato. Così Mosè avvertì il popolo di Israele: “Non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando e non ne toglierete nulla; ma osserverete i comandi del Signore, vostro Dio, che io vi prescrivo” (Deuteronomio 4:2). La precisa definizione dei contenuti costituenti il canone della Scrittura è quindi di fondamentale importanza. Se dobbiamo fidarci e obbedire assolutamente a Dio, dobbiamo avere una raccolta di "parole" che siamo certi siano le stesse parole di Dio per noi. Se ci sono sezioni della Scrittura di cui abbiamo dei dubbi sul fatto che siano o meno parole di Dio, non le considereremo come dotate di assoluta autorità divina e non ci fideremo di loro tanto quanto avremmo fiducia in Dio stesso.
ll canone dell'Antico Testamento
L'idea che il popolo di Israele avrebbe dovuto preservare una raccolta di parole scritte da Dio deriva dalla volontà di Dio e la Scrittura stessa ne testimonia lo sviluppo storico del canone. La prima raccolta di parole scritte di Dio furono i Dieci Comandamenti (Esodo 20:1-17) che di fatto costituiscono l'inizio del canone biblico. Dio stesso scrisse su due tavole di pietra le parole che comandava al suo popolo: “Quando il Signore ebbe finito di parlare con Mosè sul monte Sinai, gli diede le due tavole della Testimonianza, tavole di pietra, scritte dal dito di Dio" (Esodo 31:18). Di nuovo leggiamo: “Le tavole erano opera di Dio, la scrittura era scrittura di Dio, scolpita sulle tavole" (Esodo 32:16; cf. Deuteronomio 4:13; 10:4). Le tavole furono depositate nell'arca dell'alleanza (Deuteronomio 10:5) e costituivano i termini del patto tra Dio e il suo popolo.
Questa raccolta di parole assolutamente autorevoli di Dio è cresciuta di dimensioni nel corso della storia di Israele. Mosè stesso scrisse ulteriori parole da depositare accanto all'arca dell'alleanza (Deuteronomio 31:24-26).
Il riferimento immediato è apparentemente al libro del Deuteronomio, ma altri riferimenti alla scrittura di Mosè indicano che anche i primi quattro libri dell'Antico Testamento furono scritti da lui (Esodo 17:14; 24:4; 34:27; Numeri 33:2; Deuteronomio 31:22). Dopo la morte di Mosè, anche Giosuè aggiunse testi alla raccolta di parole scritte di Dio: "Scrisse queste parole nel libro della legge di Dio. Prese una grande pietra e la rizzò là, sotto la quercia che era nel santuario del Signore" (Giosuè 24:26). Ciò può causare perplessità se non si comprende correttamente cosa Dio volesse dire con: "Non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando e non ne toglierete nulla ..." (Deut. 4.2). Giosuè, come del resto Mosè prima di lui, aveva correttamente compreso che le parole che Dio metteva per iscritto non dovevano essere soggette ad alcuna interpretazione umana. Le "dieci parole" scritte dovevano essere considerate il principio generale inderogabile che avrebbe costituito il fondamento per quello che sarebbe stata la "legge e i profeti", ispirati successivamente da Dio stesso, e che Gesù ricomprese nei due comandamenti "Ama Dio ed ama il prossimo" (Matteo 22:36-40).
Più tardi, altri in Israele, di solito quelli che adempivano l'ufficio del profeta, scrissero ulteriori parole di Dio: "Samuele espose a tutto il popolo il diritto del regno e lo scrisse in un libro, che depositò davanti al Signore" (1 Samuele 10:25); "Le gesta del re Davide, dalle prime alle ultime, sono descritte nei libri del veggente Samuele, nel libro del profeta Natan e nel libro del veggente Gad" (1 Cronache 29:29). "Le altre gesta di Giòsafat, dalle prime alle ultime, ecco, sono descritte negli atti di Ieu, figlio di Anàni, inseriti nel libro dei re d'Israele" (2 Cronache 20:34; 1 Re 16: 7); "Le altre gesta di Ozia, dalle prime alle ultime, le ha descritte il profeta Isaia, figlio di Amoz" (2 Cronache 26:22); "Le altre gesta di Ezechia e le sue opere di pietà sono descritte nella visione del profeta Isaia, figlio di Amoz, nel libro dei re di Giuda e d'Israele" (2 Cronache 32:32); "Così dice il Signore, Dio d'Israele: Scriviti in un libro tutte le cose che ti ho detto" (Geremia 30:2).
Il contenuto del canone dell'Antico Testamento continuò a crescere fino al termine del processo di scrittura. Se datiamo Aggeo al 520 avanti Cristo, Zaccaria al 520-518 avanti Cristo e Malachia intorno al 435 avanti Cristo, abbiamo un'idea delle date approssimative degli ultimi profeti dell'Antico Testamento. In coincidenza con questo periodo sono gli ultimi libri della storia dell'Antico Testamento: Esdra, Neemia e Ester. Esdra andò a Gerusalemme nel 458 avanti Cristo e Neemia era a Gerusalemme dal 445 al 433 avanti Cristo. Il libro di Ester fu scritto qualche tempo dopo la morte di Serse I (Assuero) nel 465 avanti Cristo, probabilmente durante il regno di Artaserse I (464-423 avanti Cristo). Quindi, dopo la data intorno al 435 avanti Cristo non vi furono ulteriori aggiunte al canone dell'Antico Testamento. La successiva storia del popolo ebraico fu registrata in altri scritti, come i libri dei Maccabei, ma questi scritti non furono ritenuti degni di essere inclusi nelle raccolte delle parole di Dio degli anni precedenti.
Quando ci rivolgiamo alla letteratura ebraica al di fuori dell'Antico Testamento, vediamo che la convinzione che le parole divinamente autorevoli di Dio fossero cessate è chiaramente attestata in diversi filoni di letteratura ebraica extrabiblica. Ad esempio, nel primo libro dei Maccabei (circa 100 avanti Cristo) l'autore scrive dell'altare contaminato, "Vennero nella felice determinazione di demolirlo, perché non fosse loro di vergogna, essendo stato profanato dai pagani. Demolirono dunque l'altare e riposero le pietre sul monte del tempio in luogo conveniente, finché fosse comparso un profeta a decidere di esse" (1 Maccabei 4:45-46). Apparentemente non sapevano di nessuno che potesse parlare con l'autorità di Dio come avevano fatto i profeti dell'Antico Testamento. Il ricordo di un autorevole profeta tra il popolo apparteneva a un lontano passato, poiché l'autore poteva parlare di un grande disagio "Ci fu grande tribolazione in Israele, come non si verificava da quando fra loro erano scomparsi i profeti" (1 Maccabei 9:27).
Giuseppe Flavio, scrittore e storico ebreo di cultura farisaica, (nato a Gerusalemme nel 37/38 dopo Cristo) spiega, "Da Artaserse ai nostri tempi è stata scritta una storia completa, ma non è stata ritenuta degna di pari merito con i precedenti documenti, a causa dell'interrompersi dell'esatta successione dei profeti" (Contro Apione). Questa affermazione del più grande storico ebreo del primo secolo mostra che conosceva gli scritti ora considerati parte degli apocrifi, ma che lui (e molti dei suoi contemporanei) consideravano questi altri scritti "non ... degni di pari merito" con quelle che oggi conosciamo come Scritture dell'Antico Testamento. Dal punto di vista di Giuseppe Flavio non vi furono più "parole di Dio" aggiunte alle Scritture dopo circa 435 avanti Cristo.
La letteratura rabbinica riflette una convinzione simile nella sua ripetuta affermazione che:“Dopo la morte di questi profeti Aggeo, Zaccaria e Malachia, lo Spirito Santo si allontanò da Israele". Quindi, scritti successivi a circa il 435 a.C. non vennero accettati e considerati dal popolo ebraico come aventi pari autorità con il resto delle Scritture.
Nel Nuovo Testamento, non esiste alcuna traccia di controversie tra Gesù e gli ebrei in merito all'estensione del canone. Risulterebbe un pieno accordo, tra Gesù e i leader della religiosità ebraica del tempo, che le aggiunte al canone dell'Antico Testamento erano cessate dopo il tempo di Esdra, Neemia, Ester, Aggeo, Zaccaria e Malachia. Questo fatto è confermato dalle citazioni dell'Antico Testamento, effettuate da Gesù e dagli autori neotestamentari, che non si riferiscono in alcun caso ad i così detti "scritti apocrifi". L'assenza di riferimento a tali testi come "letteratura ispirata" e il rinvio, estremamente frequente, a centinaia di scritti afferenti all'Antico Testamento come "divinamente autorevoli", conferma che sia Gesù che gli autori neotestamentari concordassero sul fatto che il canone dell'Antico Testamento si concludesse con gli scritti del profeta Malachia e che lo stesso canone doveva essere considerato come le stesse parole di Dio.
Che dire allora degli apocrifi, la raccolta di libri inclusa nel canone dalla Chiesa cattolica romana? Questi libri non furono mai accettati dagli ebrei come Scritture, ma durante la prima storia della chiesa c'era un'opinione divisa sul fatto che avrebbero dovuto far parte o meno delle Scritture. In effetti, le prime prove cristiane sono decisamente contrarie a considerare gli apocrifi come Scritture, ma l'uso degli stessi aumentò gradualmente in alcune parti della chiesa fino al tempo della "riforma protestante". Il fatto che questi libri siano stati inclusi da Girolamo nella sua traduzione latina della Vulgata (completata nel 404 dC) sostenne la loro inclusione, anche se lo stesso Girolamo disse che non erano "libri del canone" ma semplicemente "libri della chiesa", utili per i credenti. L'ampio uso della Vulgata latina nei secoli successivi garantì la loro continua accessibilità, ma il fatto che non avessero alle spalle un originale ebraico e la loro esclusione dal canone ebraico, così come la mancanza della loro citazione nel Nuovo Testamento, portò molti a vederli con sospetto o a rifiutare la loro autorità. Ad esempio, il primo elenco cristiano di libri dell'Antico Testamento che esiste oggi è di Melitone, vescovo di Sardi, che scrive nel 170 dC: "Quando venni ad est e raggiunsi il luogo in cui queste cose venivano predicate e fatte, e appresi accuratamente i libri dell'Antico Testamento, ho esposto i fatti e te li ho inviati. Questi sono i loro nomi: cinque libri di Mosè, Genesi, Esodo, Numeri, Levitico, Deuteronomio, Giosuè figlio di Nun, Giudici, Rut, quattro libri di Regni, due libri di Cronache, i Salmi di David, i Proverbi di Salomone e la sua saggezza, Ecclesiaste, il Cantico dei cantici, Giobbe, i profeti Isaia, Geremia, i Dodici in un unico libro, Daniele, Ezechiele, Esdra".
È degno di nota qui che Melitone non nomina nessuno dei libri apocrifi. Anche Eusebio di Cesarea, vescovo e scrittore greco antico, ripete nei suoi scritti l'affermazione dello storico ebreo Giuseppe Flavio secondo cui le Scritture ispirate sono quelle redatte fino ai tempi di Artaserse; questo escluderebbe di fatto tutti gli apocrifi che invece sono stati redatti in data successiva.
Del resto un esame dei testi evidenzia che in questi libri non ci sono segni che attesterebbero un'origine divina. Tra le tante incongruenze si può rilevare che i libri dei Maccabei, di Giuditta e Tobia contengono errori storici, cronologici e geografici; giustificano la menzogna e l'inganno e fanno dipendere la salvezza da opere di merito. I libri della Siracide e della Sapienza presentano una moralità basata sull'opportunità; nello specifico la Sapienza insegna che il mondo fu creato da una materia preesistente (Sapienza 11-17) mentre Siracide insegna che le elemosine sono utili per l'espiazione dei peccati (Siracide 3-30). Nel libro di Baruch si afferma addirittura che Dio ascolterebbe le preghiere dei morti a pro dei vivi (Baruch 3:1-8).
Fu solo nel 1546, al Concilio di Trento, che la chiesa cattolica romana dichiarò ufficialmente che gli apocrifi facevano parte del canone (ad eccezione di 1 e 2 Esdra e della preghiera di Manasse). È che questo sia stato la risposta della chiesa cattolica romana agli insegnamenti di Martin Lutero e della riforma protestante in rapida espansione; i libri degli apocrifi contengono infatti supporto agli insegnamento cattolici in merito alle preghiere per i morti e alla giustificazione non solo per fede. Nell'includere gli apocrifi all'interno del canone, la chiesa cattolica romana afferma la propria autorità di elevare un'opera letteraria a "Scrittura ispirata", in contrasto con la fede protestante che continua a sostenere che la chiesa debba riconoscere autorevoli i testi ispirati che Dio ha già fatto scrivere come le sue stesse parole.
Quindi gli scritti degli apocrifi non devono essere considerati parte della Scrittura per le seguenti motivazioni:
- non rivendicano per sé lo stesso tipo di autorità degli scritti dell'Antico Testamento;
- non furono considerati Parola di Dio dal popolo ebraico da cui avevano origine;
- non furono considerati Scritture da Gesù e dagli autori del Nuovo Testamento;
- contengono insegnamenti incompatibili con il resto della Bibbia.
Dobbiamo concludere che siano semplicemente parole umane, non parole respirate da Dio come le parole della Scrittura.